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Lavori in corso

Documento provvisorio

Una giornata a Santo Stefano Belbo

 

Amo scendere a Santo Stefano Belbo  passando da Valdivilla, dall'alto di quella collina di terra bianca e scivolosa, ricoperta da vigneti ordinati come giardini; la famosa altura a forma di mammella descritta da Cesare Pavese ne: "La casa in collina".

Dopo il curvone, appena sotto l'antico monastero ora un rinomato Relais, ecco apparire adagiata nel fondovalle, la cittadina assopita fra i fumi dorati di quel nettare che ha fatto ubriacare di bontà il mondo intero: il Moscato. Ci si aspetterebbe un paese appoggiato sulla sommità di un "bricco", come ce ne sono tanti in terra  di Langa, invece Santo Stefano si estende sorniona nella vallata sottostante, a fare da sponda a quel torrente tanto amato dal poeta: il torrente Belbo.

La Gaminella, chi non conosce questo nome. Chi ha letto uno dei romanzi neorealisti più belli pubblicati in Italia nel primo dopoguerra, non può non conoscere e amare questo luogo, o meglio, il versante di questa dolcissima collina ricoperta di vigne e noccioleti, sulla quale si adagiano qua e là, aimè, antichi casolari abbandonati, ma ancora ricchi di un fascino incredibile. La collina di Cinto e di Valino, quella che si affaccia verso Canelli, solcata da sentieri che si arrampicano su, fino alla "terrazza che guarda verso l'infinito", le Colonne d'Ercole narrate in un bellissimo racconto di Pavese, un bricco alle falde del quale sorge la casa natale dell'Autore, avvolta nei suoi anni, puntellata dall'amore e dagli sguardi di chi ogni giorno la visita con infinita emozione, e dalla perseveranza di un grande uomo che ha dedicato la sua vita al sommo poeta e scrittore. Mi riferisco all'instancabile Professor Luigi Gatti, Presidente del CEPAM: Centro Pavesiano Casa Natale, persona gentile e dal cuore immenso. Ho l'onore di conoscerlo e di  “fare due parole” con lui ogni volta che mi reco a Santo Stefano, sì, perchè io in questo paese, ci sono praticamente di casa, ogni occasione è buona per tornare, e non soltanto per fare visita per l’ennesima volta, ai luoghi pavesiani, ma anche per avere il piacere di calcare il lucido selciato delle vie del suo centro storico, intatto e silenzioso, a ubriacarmi della straordinaria "aria di Langa", che profuma di vinacce, di terra, di erba tagliata di fresco, di verderame, di sudore, di cantine sazie di botti, ecco, quando respiro tutto questo non posso non pensare a Cesare Pavese, che di questa Langa ne è l'anima e la voce.

Seguo  un itinerario cittadino ben preciso, lo seguo scrupolosamente da sempre, come in un rito. L'ultima discesa verso la rotabile per Cossano, il ponte sul Belbo e poi il rettilineo che costeggia la piazza principale del paese. La prima tappa è il caffè Roma, seduto al quale, si dice, Pavese amava sostare e scrivere sorseggiando un bicchiere di buon moscato, e di quel nettare non può privarsi il mio palato, non si vive soltanto di sensazioni e che diamine. Mi siedo e aspetto che il barista venga a prendere l'ordine: "Professore, è tornato a trovarci, ne sono lieto. Cosa le porto? La solita coppa di moscato?" Chissà perchè mi ha sempre chiamato... "professore"; il mio aspetto austero forse, la barba bianca da intellettuale, il mio silenzioso osservare. Mi raccomando che mi venga servito con gli irrinunciabili Amaretti di Mombaruzzo e vengo accontentato con garbo. Mi guardo attorno, scruto la piazza e la immagino in bianco e nero come in quella vecchia cartolina che conservo nel mio studio, fra le pagine di Paesi tuoi, un altro gioiello scaturito dalla penna del grande autore, intanto una donna presumibilmente nordafricana, mi attraversa lo sguardo, tiene per mano  un bambino, un operaio originario di qualche paese dell’est Europa, cerca di spiegare al proprietario di un negozio li di fianco, gli inconvenienti di un tetto con il cornicione non molto pronunciato e lo fa inserendo nel suo discorso parole in dialetto piemontese. Sorrido e mi rendo conto di quanto stiamo cambiando: io piemontese (adottivo) da oltre mezzo secolo, ho ancora il timore di avventurarmi in simili esibizioni linguistiche. Cerco con lo sguardo l'Albergo dell'Angelo, dalla parte opposta della piazza, luogo dove Pavese alloggiava nelle sue frequenti puntate nella sua terra natale, molte volte citato ne la Luna e falò, e lo vedo in fondo, grigio, un casermone che non trasmette nulla di emozionate a chi non ne conosce la storia. Una piccola e anonima targhetta di fianco alla porta di quello che oggi mi pare sia un pub, ricorda con eccessiva discrezione, che qui vi alloggiò il grande scrittore.

La giornata è passabile. Il cielo appena velato e un po' di foschia alta fra i bricchi, conferiscono al paesaggio un carattere estremamente romantico. Questa è la Langa, non potrebbe essere diversa. Il fiato della terra cova le tartufaie, ammorbidisce l'argilla delle vigne, amalgama i colori. E' un silenzio percepito sia dall'udito che dallo sguardo, tutto è in sintonia con il carattere della gente che la abita, taciturna, chiusa, diffidente ma anche cordiale e disponibile con chi dà prova di meritarsi la loro fiducia. Pago il mio conto e il barista, gentilissimo, mi fa quasi un inchino poi mi augura un buon proseguimento, lui lo sa dove sono diretto, ci vengo da 20 anni qui a Santo Stefano e spesso ne abbiamo parlato. Salgo in macchina, e adagio mi avvio al cimitero (cerco di gustarmi ogni metro quadro di questo fantastico borgo). Eccola l'austera tomba dello scrittore, una lastra di Pietra di Langa sormontata da una stele in bronzo, ormai indecorosamente ossidato, è lì appena oltre il cancello, a sinistra.  Il lato che dà verso l'esterno è limitato da una piccola siepe: non ci sono fiori. Mi fermo in meditazione come sempre e per abitudine o forse per chissà quale recondita ed intrinseca esigenza, recito mentalmente, come fosse una preghiera, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. Intanto una leggerissima pioggia iniziano a cadere, lieve, come a volermi spalmare il silenzio sul viso, come a voler arricchire di lacrime, la mia trattenuta ma tangibile emozione.

Va bene, adesso basta con la tristezza, mi dico, ogni volta la stessa storia; la poesia è anche positività...! Da quale pulpito giunge la predica, scrivo anch'io e non ho mai pensato alla poesia come a un'espressione di gioia smodata, perchè la poesia è un tarlo che ti scava gallerie dentro, sgorga impietosa dalla fonte della tua creatività principalmente quando il vuoto o il dolore tracimano. Come affermò l'immenso Beppe Fenoglio: la gioia non fa romanzo e tantomeno la poesia.
La casa dello scrittore non è lontana dal camposanto, pochi metri più avanti, sulla strada per Canelli, la si incontra sulla destra, proprio sotto alle prime propaggini di quella che fu lo scenario ideale per quel romanzo a me così caro. La collina che sussurra, che racconta, ancora impregnata di presenze arcaiche ma discrete e intramontabili. Il portone che dà nel cortile è sempre aperto, vi era in fondo un ristorante dal nome che a me pareva irriverente, offensivo per lo scrittore, proprio di fianco alla casa del sommo poeta, ma ora non c'è più e me ne rallegro, ha lasciato il posto a un altro locale dal nome meno blasfemo, anzi, oserei dire che s'innesta in maniera quasi perfetta nel contesto del luogo. La porta dell'antica abitazione, un caseggiato di inizio '900, è sprangata e per un momento mi sento perso, ma come a materializzarsi dal nulla, ecco apparirmi la figura sottile, rassicurante e gradevole del professor Gatti, che con un sorriso, mi dà per l'ennesima volta, il suo benvenuto.

Ormai Gatti lo sa che non resisto più di tre mesi senza varcare quella porta in rovere imbiaccata; spesso arrivo con qualche amico, lo porto a visitare quei luoghi a me tanto cari e sento dentro l'orgoglio di esserci un po' di casa, come se quelle mura, in qualche modo, appartenessero un pochino anche a me. La visita è breve, mi basta andare su per la scala interna, quella che porta al piano superiore e poi al solaio, conosco ogni gradino ormai, vi potrei salire bendato, è un gesto che mi appaga, mentre Il professore mi aspetta pazientemente al pianterreno. Ricordo un amico, che alcuni anni fa accompagnai in quei luoghi, un avvocato siciliano, grande come un armadio, ma dal viso e dal carattere buono e simpatico, che appena giunto sulla porta d'ingresso della casa dello scrittore, si inginocchiò con le lacrime agli occhi come davanti a un luogo sacro, una testimonianza di amore smisurato, sincero, incondizionato, un esempio per quei concittadini di Cesare Pavese, per fortuna pochi ormai, che ancora oggi lo vivono con distacco, se non addirittura con insofferenza.

Una mezzoretta e rieccomi ancora nel piccolo parcheggio lungo la rotabile, sarei tentato di proseguire verso la casa di Nuto, con il suo laboratorio al pianterreno, a poco più di un chilometro da qui, l’arcinota cascina la Mora, appena di fronte alla casa del "suonatore di clarino" e valente maestro d'ascia, ma si sta facendo tardi, e oltretutto, non vi è più un angolo, un solo mattone o tegola, una porta, un filo d'erba, un'ombra che non sia già stata ospite d'onore dell’obbiettivo della mia macchina fotografica, almeno una decine di volte.

E' proprio ora di ritornare a casa, nella mia monotona pianura. No, ci sto bene, è il mio paese, alle prime propaggini del Basso Monferrato, a pochi chilometri da Torino, dalle Langhe e dal Roero, a un tiro di schioppo dalla mia Valle occitana; non mi lamento e mi reputo fortunato, da quella pianura posso raggiungere in meno che non si dica ogni luogo a me più caro. Mi accontento, me lo faccio bastare. Risalgo in auto e via a ritroso: il cimitero, il centro storico, il bar Roma, il ponte sul Belbo. Decido di tornare passando da Boglietto, la strada è meno panoramica però è più scorrevole, meno curve, meno salite, nessuna strettoia, ma non resisto alla tentazione di fare un’ultima puntata veloce alla stazione ferroviaria di Santo Stefano, luogo pavesiano per eccellenza, d'altronde ci sono di strada, basta voltare a destra appena fuori dal centro abitato, e ci batto dentro. E' la stazione di un paese contadino, una stazione come tutte le altre ma mi ha sempre affascinato alla follia; ogni cosa, sia dell'edificio che della piazzetta antistante, mi parla dello scrittore; la vecchia osteria appena li di fianco, con la sua storica insegna, la massicciata dell'unico binario, che se non lo sai che appena oltre quel canneto si arresta di brutto contro la collina, lo immagini proseguire all'infinito, a solcare vigne e frutteti. Non c'è nessuno, o meglio…proprio in questo momento qualcuno sta uscendo dalla sala d'aspetto, valigia alla mano, passo cadenzato ma lento, un signore di mezza età, alto, magro, con la schiena un po' curva, vestito in maniera distinta, un giornale infilato nella tasca della giacca, il colorito ceruleo di chi abita da sempre all'ombra dei palazzi di Torino. Mi stupisco, non è arrivato nessun treno, probabilmente la linea e disattiva da tempo...Lo vedo incamminarsi a testa bassa, verso il centro. Lo inseguo con lo sguardo, strabuzzo gli occhi, lo riconosco, com'è possibile! Vorrei chiamarlo per nome, ma all'improvviso, agita la mano in segno di saluto, e senza voltarsi, mi grida con fare divertito: Ciau; suma turna sì! (ciao, siamo di nuovo qui)

 

Antonio Ciminiera

 

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