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Presenze

Cesare Pavese e la sua langa

Qualcuno correva sullo stradone nella polvere, sembrava un cane.  Vidi ch'era un ragazzo: zoppicava e ci correva incontro.  Mentre capivo ch'era Cinto, fu tra noi, mi si buttò tra le gambe e mugolava come un cane.
- Cosa c'è?
Lì per li non gli credemmo.  Diceva che suo padre aveva bruciato la casa. - Proprio lui, figurarsi,
- disse Nuto.
- Ha bruciato la casa, - ripeteva Cinto. - Voleva ammazzarmi... Si è impiccato... ha bruciato la casa...
- Avranno rovesciato la lampada, - dissi.
- No, no, - gridò Cinto, - ha ammazzato Rosina e la nonna.  Voleva ammazzarmi ma non l'ho lasciato... Poi ha dato fuoco alla paglia e mi cercava ancora, ma io avevo il coltello e allora si è impiccato nella vigna...

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                               

Tu sei come una terra

che nessuno ha mai detto.

Tu non attendi nulla

se non la parola

che sgorgherà dal fondo

come un frutto tra i rami.

C'è un vento che ti giunge.

Cose secche e rimorte

t'ingombrano e vanno nel vento.

Membra e parole antiche.

Tu tremi nell'estate.

Anche la notte ti somiglia,

la notte remota che piange muta,

dentro il cuore profondo,

e le stelle passano stanche.

Una guancia tocca una guancia ‒

è un brivido freddo, qualcuno

si dibatte e t'implora, solo,

sperduto in te, nella tua febbre.

La notte soffre e anela l'alba,

povero cuore che sussulti.

O viso chiuso, buia angoscia,

febbre che rattristi le stelle,

c'è chi come te attende l'alba

scrutando il tuo viso in silenzio.

Sei distesa sotto la notte

come un chiuso orizzonte morto.

Povero cuore che sussulti,

un giorno lontano eri l'alba.

Beppe Fenoglio e La malora

La figura di Placido fu protagonista di molti racconti ed appartenne alla più ristretta ed intima cerchia di amici dello scrittore: nella sua osteria con il cortile, luogo di mitiche sfide a pallone elastico, si concentrava la vita sociale del paese.

 

Nell’istante la corriera sbucò, polverosissima, dall’ultima curva, sollevando un polverone che investì i tronchi degli ippocastani di fronte alla privativa di Placido. Si fermò solitamente davanti all’osteria, e ne scese Eugenio l’autista.

 

Beppe Fenoglio

Il paese

Pioveva su tutte le langhe, lassù a San Benedetto mio padre si pigliava la sua prima acqua sottoterra. Era mancato nella notte di giovedì l’altro e lo seppellimmo domenica, tra le due messe. Fortuna che il mio padrone m’aveva anticipato tre marenghi, altrimenti in tutta casa nostra non c’era di che pagare i preti e la cassa e il pranzo ai parenti. La pietra gliel’avremmo messa più avanti, quando avessimo potuto tirare un po’ su testa. Io ero ripartito la mattina di mercoledì, mia madre voleva mettermi nel fagotto la mia parte dei vestiti di nostro padre, ma io le dissi di schivarmeli, che li avrei presi alla prima licenza che mi ridava Tobia.

 

Beppe Fenoglio

La malora

Alba la presero in duemila il 10 ottobre e la persero in duecento il 2 novembre dell'anno 1944.
Ai primi d'ottobre, il presidio repubblicano, sentendosi mancare il fiato per la stretta che gli davano i partigiani dalle colline (non dormivano da settimane, tutte le notti quelli scendevano a far bordello con le armi, erano esauriti gli stessi borghesi che pure non lasciavano più il letto), il presidio fece dire dai preti ai partigiani che sgomberava, solo che i partigiani gli garantissero l'incolumità dell'esodo. I partigiani garantirono e la mattina del 10 ottobre il presidio sgomberò.

 

Beppe Fenoglio

Il partigiano Johnny

i ventitre giorni della città di alba

 

Barbo Toni Boudrìe (Antonio Bodrero) e la Valle Varaita, terra occitana.

Attraverso la poesia di Boudrìe la lingua della minoranza occitana in Italia ha compiuto un salto epocale: da dialetto disprezzato e destinato all’estinzione a lingua aulica, sublime, vertigine di mistero capace di parlare non solo all’occitano che riscopre la propria identità alienata, ma, nel suo respiro universale, all’umanità intera. Con Boudrìe – come già era avvenuto con Mistral nell’Ottocento – l’antica lingua d’oc dei trovatori esce dal sonno di tanti secoli bui e ritrova prodigiosamente lo splendore delle corti duecentesche.

Antonio Bodrero (Frassino, 1921 – 1999) è stato un poeta, politico e patriota italiano di lingua e cultura occitana.

Vissuto in Piemonte, come figura culturale è ricordato per essere stato anello di congiunzione tra la cultura piemontese e quella provenzale alpina, dovuta alla sua provenienza da una regione di crocevia, e posta al centro della sua opera letteraria e del suo pensiero patriottico. Il nome con cui è conosciuto non è tanto quello anagrafico, bensì Barba Tòni Baudrìe o Baudrier, in lingua locale. La sua opera letteraria bilingue piemontese-Dialetto vivaro-alpino ha riscosso il plauso della critica - ad esempio, Franco Brevini lo definì "Una delle figure più rilevanti della poesia regionale contemporanea" La sua poesia ci presenta un mondo mitico, leggendario, da saga popolare", una cultura "segreta, umile, repressa", in un clima tra il fantastico e il visionario.

A pochi chilometri dal confine francese, a 1800 m di altitudine, sorge il piccolo borgo di Chianale. Chianale è stato sin dall’antichità un’importante tappa del Chemin Royal, tappa obbligatoria per trasportare il sale oltre il confine francese, passando per i 2748 m del Colle dell’agnello per poi raggiungere la regione del Queyras.

Culla della cultura occitana, Chianale nasconde in se tutte le caratteristiche e i dettagli che l’hanno portato ad essere considerato uno dei piú bei borghi italiani esistenti, pietra scura e legno sono parte integrante dei materiali utilizzati nell’architettura che contraddistingue tutto il paese; tetti di lose, travi a vista. Chi passeggia per il centro lo trova diviso in due parti, separate dal torrente Varaita: a tenere uniti i due nuclei c’è un ponticello in pietra, in corrispondenza della piazzetta con la fontana, il vero cuore paesano.

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